Scontri
È bellissimo quando i linguaggi si incontrano. Ognuno di loro ha qualcosa da dire e dice effettivamente qualcosa, fornendo chiavi di lettura che ci aiutano a osservare la realtà. Fondamentale, come sempre, è saperli ascoltare individuando le maglie dei reticoli da cui partono gli innumerevoli testi che daranno luogo a molteplici discorsi. Sistemi rizomatici, non gerarchici e non significanti di per sé ma che acquisiscono significato nell’incontro, più o meno cordiale, tra i linguaggi. Incontri da cui assumeranno in seguito configurazioni geometriche orizzontali e verticali e, questa volta, gerarchiche.
L’arte rappresenta a mio avviso uno dei linguaggi più efficaci in tal senso. Dal pensiero alla percezione alla raffigurazione. Dal testo al discorso figurativo. Dalla linea (il segno) alla composizione che esce dalla tela e da ogni schema per giungere alla significazione attraverso ventagli che il singolo può colorare a proprio piacimento. Si può chiedere di meglio?
La realtà che viene liberata da un tratto, da una forma, da un colore. Già, liberare la realtà. Lo pensava anche Kandinskij con le sue improvvisazioni e i linguaggi musicali che continueranno sempre a scaturire dalla sua pittura.
L’arte, come la lingua, rivela forse meglio di ogni altro esempio il paradosso della nostra idea di libertà. Faccio mio il concetto di Davide Graeber in “Burocrazia”: perché la lingua non è uno stato ma un processo, cioè una tensione tra la norma e il parlato, tra le regole e la libertà.
Non solo Pollock e Magritte
- Anche i quadri di famiglia, quelli esposti in salotto da una vita, regali di matrimonio dei genitori, magari, che guardiamo da trent’anni senza mai stancarci. Paesaggi e nature morte.
- Le stesse nature morte che Renoir definiva “dipinti che riposano il cervello”.


Secondo Lotman infatti “[…] la cosa in un quadro a soggetto si comporta come la cosa a teatro, la cosa nella natura morta come la cosa nel cinema. Nel primo caso recitano con lei, nel secondo è lei che recita. Nel primo caso non ha un significato indipendente, bensì lo riceve dal significato dell’azione scenica: è un pronome. Nel secondo caso essa è un nome proprio, è munita di un significato proprio ed è come se venisse inclusa nel mondo intimo dello spettatore”. Concetto riportato anche nello studio di Paolo Fabbri dal titolo “La vita profonda delle nature morte”.
È interessante osservare la vitalità della natura morta, a mio avviso maltrattata a partire dal nome – che allontana la curiosità invece che allenarla. Molto meglio l’inglese “still life”, di sicuro (parentesi doverosa).
L’immobilità del quadro ci conduce verso un universo non più statico ma dinamico, desideroso di popolarsi di elementi in movimento e anche fermi (still, per l’appunto) che, ancora una volta si scontrano dando vita a nuove forme liberate da tratti tutti da interpretare. Anche qui, a mio avviso, possiamo giungerci attraverso improvvisazioni, pennellate astratte e sperimentazioni. A tale proposito, Alberto Burri, in mostra a Ravenna nel momento in cui scrivo, ci regala l’essenza di un linguaggio geometrico fatto di supporti cartacei e dorati e di materiali ora grezzi ora più raffinati, che confliggono serenamente per infondere nello spettatore alcune cruciali chiavi di lettura.
A. Burri. Sacco ST 11, 1954
Ultimo, e va da sé non è certamente ultimo: Eron. In un mio commento datato ottobre 2023.
ottobre 2021
